Siamo a Tito, Potenza. È domenica pomeriggio, la prima di maggio. Si gioca la finale di Writers League tra Italia e Germania, all’interno delle attività di Matera Capitale Europea della Cultura 2019. Da poco si è conclusa la sfida per il terzo posto tra Inghilterra e Svezia, tre a zero per gli Inglesi.
Lo stadio Mancinelli sembra una mappa del meteo: quelle nuvole che negli altri posti stanno in cielo, qui si aggirano tra gli spalti, si sfilacciano in campo, rovesciano pioggia e si dileguano rapide, lasciando spazio alle altre che accorrono. Alla fine del primo tempo l’Italia è in vantaggio per uno a zero. Il gol lo ha siglato Pier Franco Brandimarte, una cascata di ricci in testa e un accordo tutto suo con il vento, che gli allunga o gli accorcia palloni pur di farglieli trovare pronti a essere scagliati verso le porte avversarie. Sono quattro partite che Brandimarte ringrazia e insacca.
Rientriamo negli spogliatoi. Ci raccogliamo attorno a un logoro lettino dei massaggi, dove il mister, capitano, bomber e tante altre cose ancora, Francesco Trento, ci ha spiegato per due giorni nozioni tattiche utilizzando delle bottigliette di acqua liscia per impersonare gli statici difensori avversari. Questa volta Trento parla con più fervore, ma non di schemi o giocate. È che l’arbitro ha sbagliato a cronometrare la durata del primo tempo e ha fischiato cinque minuti prima. Siamo cinque minuti più vicini a battere la Germania e questo a un qualsiasi maschio italico che si rispetti non può che far piacere.
«No, ragazzi, è una questione di onestà!» dice invece Trento, che vuole convincere il direttore di gara a recuperare il tempo che non si è giocato. Noi mugugniamo, ma tanto lo sappiamo che con lui non c’è nulla da fare. Così Francesco informa il capitano tedesco e insieme raggiungono l’arbitro che prolungherà di cinque minuti la durata del secondo tempo.
Io mi tocco le gambe e so che sto per cedere. Sono due anni che non gioco e già essere sopravvissuto alle tre partite del giorno prima, oltre che al primo tempo della finalissima, può considerarsi un dignitoso risultato personale. Personale, appunto. Ma la squadra viene prima di tutto. Trento mi chiede se ce la faccio. Io gli mento e gli dico di sì.
Sono arrivato a Tito da New York. Certo, fanno più sensazione gli svedesi in Basilicata, ma io sono senza dubbio quello che viene da più lontano. Molti dei miei compagni neanche li conosco. L’ultima volta che ho vestito la casacca dell’Osvaldo Soriano, questo il nome della nazionale italiana scrittori, è stato cinque anni fa, poi mi sono trasferito dall’altro lato dell’oceano. Stavolta però c’era il mondiale, la Writers league che l’Italia ha vinto in entrambe le edizioni del passato. I reduci dalle due precedenti vittorie sono i Bi-leoni di Haifa, la città in Israele che ha ospitato le prime Writers. Così ho preso un primo volo da New York, un secondo da Zurigo, una macchina in affitto dall’aeroporto di Bari e ho raggiunto Tito, Capitale per un giorno.
Quando arrivo a destinazione, dopo essere stato dotato di un pass e di un caffè, vengo accompagnato nell’auditorium dove si proietta il documentario Crazy for Football, di cui Trento è anima e sceneggiatore, che racconta le avventure della Nazionale Italiana di Calcio a 5 per persone con problemi di salute mentale nel corso del mondiale giapponese del 2017. La sala è buia e si crea una strana connessione tra il racconto di ciò che succede nella testa dei calciatori, le loro solitudini scomode, e il rimbombo festoso delle scolaresche di Tito che nell’auditorium esultano ai gol dell’Italia. La solitudine che si puntella nell’appartenenza a una squadra, per moltiplicarsi nella condivisione di un sogno con il pubblico in sala: cose magiche che solo il calcio. Un insopprimibile moto di commozione mi travolge. Lascio che le lacrime vengano giù, poi le luci in sala si riaccendono.
Dopo gli abbracci con i vecchi compagni, le presentazioni di rito con i nuovi e un breve spuntino in albergo (penne al pomodoro, bresaola e crostata con la marmellata come i calciatori veri) torniamo tutti allo stadio. La partita inaugurale è tra la nostra nazionale e la Svezia. L’Italia schiera un quattro quattro due piuttosto canonico con Martino Ferrario tra i pali, un autore e un editore messi tutti nello stesso uomo che difatti è grande quanto due persone; una linea difensiva che mi viene presentata come gente dai piedi buoni: il centrale Raffaele Riba, che per eleganza e seraficità ricorda Andrea Pirlo e quindi ispira lombrosiana fiducia in una altrettanto pirlesca sapienza calcistica, il suo collega di reparto prestatoci dalla nazionale di Crazy for football Matteo Amendola, il tautogrammatico terzino Walter Lazzarin a destra (del resto a un terzino basta un’idea sola – spingere – per fare una grande partita, come a Walter basta una lettera per scrivere una grande storia). Chiude la linea il sottoscritto a sinistra. A centrocampo sfrecciano sulle ali Gianluca Jallo Lombardi, giocoleria e sostanza come si conviene a un modernissimo numero dieci, talmente moderno da svolgere anche l’incarico di preparatore atletico ad interim dell’Osvaldo Soriano e Paolino Valoppi, infortunato di lungo corso che torna qui in una lotta metonimica contro una parte di sé, quel ginocchio che gli ha dato noie negli ultimi anni e a cui Paolino vuol dimostrare di essere assai più forte. Al centro abbiamo Ruben Caribi, silenzioso geometra che come Amendola proviene da Crazy for football, e l’uomo con la marcia in più, Emiliano Zanna Zannoni, colui al quale puoi sempre affidarti quando sei in difficoltà e che verrà in soccorso tirando su il baricentro della squadra, una sorta di entità religiosa, ma più affidabile di quasi tutte le versioni di Dio che popolano il pianeta, con gli addominali scolpiti e l’accento livornese. A fare gol penseranno gli attaccanti, tre maglie per due posti: il Brandimarte di cui si è detto, Trento in una delle sue migliori interpretazioni, quella da centravanti, e Nicola Boccola, la cui poderosa fisicità di per sé basta a incutere timore alle difese avversarie. Se poi per caso non bastasse, ci sarebbero quei due tre trucchetti da ex lottatore di greco-romana che il Boccola conosce.
Insomma, contro una Svezia che lamenta uno scarso ricambio generazionale, prendiamo subito il boccino del gioco e ci procuriamo un doppio vantaggio. Così mentre mi beo del fatto che le gambe tengono, che non ho jet lag, che l’Osvaldo Soriano non ha mai preso un gol con me in campo, che il calcio è uno sport meraviglioso, che la Basilicata ha un paesaggio spettacolare, che siamo proprio dentro le nuvole, dentro, e che sì, quasi quasi potrei anche considerare l’ipotesi di tornare a vivere qui... mentre tutto questo, mi perdo lo svedese che dovrei marcare sul calcio d’angolo e quello, assai poco riguardoso nei confronti dei miei bucolici propositi, incorna la sfera e riapre la partita. A quel punto l’italico dna di gente assai più brava a venir fuori dalle difficoltà che a veleggiar trionfante, prende il sopravvento. Gli svedesi la buttano in caciara calcistica: calci piazzati e mischioni che fanno tremare la nostra tecnicissima difesa. Eppure, come da tradizione storica, resistiamo. Il fischio finale è un gran sollievo e ci porta in carniere i primi tre punti.
Il Mancinelli è battuto da pioggia e vento a intensità crescente, raffiche di nuvole si sovrappongono sulle fasce con più lena di ali e terzini. La mezzora nella quale scendono in campo inglesi e tedeschi per un combattuto pareggio a reti inviolate congela gli spettatori sulle tribune e i muscoli arrugginiti dei più anziani giocatori. Il primo polpaccio a saltare è quello di un Inglese a cui rivolgo tutta la mia compassione, sapendo che solo per un caso benevolo non è ancora toccato a me.
Zuppo di pioggia ed edotto in maniera empirica su come Potenza sia il capoluogo di provincia italiano più elevato sul livello del mare, riprendo il mio posto sulla fascia per la seconda partita contro gli inglesi. Tutto fila invece clamorosamente liscio. Brandimarte ci porta in vantaggio al termine di una azione corale da manuale. Jallo Lombardi prima calcia in bocca al portiere inglese il rigore del due a zero, poi gli sistema sotto l’incrocio una deliziosa palombella che sigilla un altro doppio vantaggio che stavolta difenderemo senza affanno. Su rigore era troppo facile, dice Jallo, strizzando l’occhio. Siamo a sei punti in classifica che valgono già un posto nella finalissima di domani.
Una nuova mezzora sotto la pioggia finisce l’operazione di logorio fisico che mi sta consumando. Un polpaccio indurito, la schiena incriccata, gli adduttori affaticati e una costola traumatizzata da un paio di scontri che mi segnala un dolore aguzzo e pulsante: sono in una di quelle situazioni fisiche in cui faccio prima a dire cosa non mi fa male. Spiego al mister che se vogliamo mantenere una pur minima possibilità di resurrezione per la finale di domani, è meglio che io non giochi la terza partita.
Così mentre mi concedo il ristoro di una doccia calda, il torneo prosegue con altre due sconfitte dei pur indomiti svedesi. Resta solo la partita finale tra la nostra squadra già qualificata e la Germania, che per differenza reti pure ha già un piede in finale. Per l’occasione, Mister Trento sceglie di far rifiatare i più acciaccati, dando spazio a quelle che definire riserve è un vero lusso: il veterano zio Cassidy Marco Cassardo, cuore granata e cervello da mental coach, già bi-leone di Haifa; come lui Manu Bianco, il terrore di tutte le traverse, percosse per decenni con una mira implacabile; infine Boris Sollazzo, pronto a rattoppare ogni eventuale scucitura difensiva grazie a un ineffabile spirito di squadra, peraltro già manifestatosi a pranzo quando avvisava potenziali compagni di stanza di essere cintura nera di russata.
Vista dagli spalti la partita sonnecchia. Come sempre, quando la posta in gioco non conta, agli italiani difetta furore, così i tedeschi ci infilano due pappine, prendendosi il comando del girone e i favori del pronostico per la finalissima dell’indomani.
Dopo una breve sosta in albergo, il programma della serata prevede un incontro con la comunità di Tito in un centro di accoglienza migranti. Sapori e suoni locali ed etnici allieteranno il terzo tempo. Il sindaco di Tito spende parole di grande ospitalità, offrendo la disponibilità del comune a trasformare Tito nella Coverciano della Nazionale scrittori. Se la focaccia e il cous cous non bastano, al bar sotto il centro sociale servono ottimi spritz. Scorre birra, si intavolano sfide di ping pong e biliardino, le squadre si mescolano, i ragazzi di Tito interagiscono con gli scrittori, qualche aitante fiero nordico biondissimo svedese fa strage di cuori.
Io mi trascino inclinato come la torre di Pisa (dev’essere per questo che il livornese Zannoni mi guarda diffidente), rimuginando soluzioni per l’indomani. Ne approfitto per mettermi seduto e fare due chiacchiere con Francesco Trento, che mi chiede se sto scrivendo. Gli dico che ho in mente una storia bellissima ma poco tempo, energia, disciplina per starle dietro.
«Non ho neanche iniziato» ammetto. Lui mi guarda con quella espressione che certo doveva avere anche qualche anno fa, quando mi ero lamentato di non riuscire a permettermi il lusso della scrittura, in una vita assorbita da molte altre incombenze. «Cazzate» mi aveva risposto, esortandomi a non piangermi addosso, a farlo uscire quel tempo, a difenderlo, a non sprecarlo. «Non è un lusso. È quello che siamo» mi aveva scritto. E a lui pensavo, non sempre con parole dolci, quando puntavo la sveglia un’ora prima o saltavo i weekend per dedicarli alla stesura del romanzo che, infine, era arrivato. Questa volta Francesco mi sorride. Neanche mi dice niente. Mi batte una mano sulla coscia e mi lascia da solo. Io mi rimetto in piedi e mi lascio sfuggire un urlo di dolore. Preoccupati per la mia vistosa indisposizione, i due ragazzi dell’organizzazione con cui ho avuto a che fare, si avvicinano premurosi.
Marika e Giancarlo sono due lucani dal sorriso gentilissimo. A loro rivolgo le mie richieste più strane: bustine di Oki, numeri di telefono di massaggiatori o fisioterapisti, libri di magia nera e formule alchemiche; qualsiasi mezzo legale o illegale che mi permetta di scendere in campo per la finale. Loro non battono ciglio, si dileguano rapidi. Dopo dieci minuti ho le mie bustine di Oki e il numero del fisioterapista della squadra di calcio di Tito che mi visiterà al mattino seguente. C’è di che essere ottimisti: un sorso di Oki, uno di Spritz e sono pronto per un bel sonno ristoratore.
Prima però, come in ogni ritiro che si rispetti, ci ritroviamo tutti in una delle camere, per svolgere un’attività clandestina, vagamente proibita e propiziatoria, che nel caso di una squadra di scrittori, non può essere che la lettura di qualche pagina infuocata. Boccola, padrone di stanza e anch’egli Bi-leone in carica, è il nostro anfitrione. Leggiamo. Ridiamo. Rispolveriamo aneddoti delle Writers League precedenti, commentiamo i fatti appena successi che diventeranno gli aneddoti delle edizioni future. Parliamo della Germania. Sottovoce anche se nessuno può sentirci. Sono forti, sarà dura. Ci diamo la buonanotte. Io esco dalla stanza di Boccola e mi avvio per un corridoio lunghissimo al termine del quale troverò la mia camera. Il corridoio è davvero smisurato e la lentezza piena di dolore con cui lo percorro rende quel tragitto inquietante. Mi volto per assicurarmi che non sia in arrivo il triciclo di Shining. Accarezzo anche l’idea di crearmi un giaciglio di fortuna e fermarmi lì, nel corridoio. Per fortuna sono in stanza prima che lo sconforto mi annichilisca completamente.
In camera ci sono ancora i suoni di una festa in discoteca. Sembrano quei rumori generati apposta dai tifosi della squadra locale quando una squadra ospite dorme nell’albergo della città. Ormai calato nella parte del calciatore professionista chiamo la reception e mi incazzo:
«Mi sa dire cosa sono questi rumori? È l’una e mezza di notte!»
«Che rumori?»
«Questa musica! C’è una discoteca qui intorno?»
«Sì, dev’essere la discoteca»
«Ma quanto dista?»
«Un paio di chilometri!»
«Ah però – qui faccio una pausa ammirata per la potenza degli impianti audio delle discoteche lucane, poi il mio scetticismo sviluppato negli anni newyorkesi prende il sopravvento – Non è proprio musica da discoteca, sento come un suono di piano bar, una musica di compleanno»
L’uomo alla reception non risponde.
«Pronto?»
«Sì»
«Dicevo, sento il rumore di una festa di compleanno»
«Ah, e sì!» ammette l’uomo con reticenza.
«Sì che cosa?» incalzo io.
«Sì, quella è la festa di compleanno che si svolge nella sala ricevimenti dell’albergo! Se potete avere un altro po’ di pazienza, sono arrivati al taglio della torta!»
Chiudo il telefono infastidito. Con una lentezza indicibile metto le mani dietro la testa. Una serie di pensieri mi attraversa. Ho fatto settemila kilometri per stirarmi un polpaccio e incrinarmi una costola. Sono a Tito, in provincia di Potenza, a due ora da Bari, la mia città, e non ho avvisato nessuno dei miei amici che passavo in Italia. Sono in Italia e non ho mangiato neanche una pizza. Sono diventato uno che telefona per far finire una festa. Almeno in camera con me non c’è nessuno che russa. Sollazzo Santo Subito. Ho fatto un tautogramma, devo dirlo a Lazzarin. Mi sento terribilmente solo. Non sono solo. Faccio parte di una squadra. Sogno di diventare campione del mondo con la nazionale a cui appartengo fieramente. Forse l’Oki e lo Spritz non stanno benissimo assieme.
Il programma della domenica prevede una serie di attività da svolgere con la comunità locale. Da un lato Jallo darà lezione di freestyle ai ragazzi delle scuole calcio invitate, dall’altro lato zio Cassidy discuterà di mental coaching con atleti e staff delle squadre maggiori.
Io mi aggiro guardingo con l’atleticità di un umarell: le mani dietro la schiena che bilanciano la mia acciaccata inclinazione in avanti, elargisco sorrisi di circostanza a chi mi chiede come sto. La Writers league intanto si biforca e mentre in campo si scoprono le insospettabili doti da palleggiatore del sindaco di Tito che partecipa alla lezione di Lombardi, Cassardo sugli spalti dipana interessantissimi concetti, specialmente quello sul conflitto che ogni atleta vive nella sua testa tra le proprie voci interne. Marco è costretto a sintetizzare: la voce del campione è quella positiva, che ci incoraggia, che ci tiene sul pezzo, che ci invita a lottare e non demordere. Il mostro è invece lo spirito distruttore che è in agguato dopo un errore, quello che toglie sicurezza, che ti induce a credere che sbaglierai ogni gol nella partita, solo perchè hai fatto volare sopra la traversa il primo pallone buono che ti è capitato. Tra le altre cose, il mental coach aiuta gli atleti a disciplinare queste voci, rafforzare la parte buona e confinare quella cattiva. La lezione vola in fretta ed è già tempo di tornare nell’auditorium dove si svolgerà la partita dei racconti.
Non per me. Gli amici di Tito mi avvisano che il fisioterapista è arrivato allo stadio ed è disponibile a darmi una mano, o più verosimilmente a darmele entrambe. Così faccio la conoscenza di Massimo, la cui stretta di mano morbida e piena di energia già mi incoraggia. Quando gli faccio l’elenco di tutti i miei acciacchi, lui mi chiede che percentuale mi do di essere in campo nella finale del pomeriggio. Io tentenno e lui risponde per me: due per cento? Adoro il rapporto dei lucani con l’inettulabilità del fato, quel temere il peggio, aspettarlo perfino, bilanciato dall’ostinazione a fare tutto il possibile per scongiurarne l’arrivo. Difatti le mani di Massimo sono miracolose. Scendo dal lettino che sono quasi arruolabile, almeno riuscirò a star dritto quando suoneranno gli inni nazionali prima della partita. Di buona lena ritorno allora verso l’auditorium.
Ogni squadra ha selezionato due autori che leggeranno delle brevi storie al pubblico in sala, chiamato a esprimere con un voto il gradimento dell’opera. L’idea della partita dei racconti è di Marco Mathieu, il leone per definizione dell’Osvaldo Soriano. C’è grande commozione, perché Marco è in un letto d’ospedale da due anni, a seguito di un incidente in moto che lo ha indotto in un sonno dal quale non si è ancora svegliato. Marco è una delle persone a cui più facile è voler bene: stopper di roccia, la voce cavernosa che rende la sua risata inconfodibile, signore degli abbracci, anima punk e modi gentili, la curiosità del viaggiatore che brilla nel profondo di occhi nerissimi. Sua è anche la frase che i writers di Tito stanno dipingendo sul muro del Mancinelli: Cos’è il calcio? É il gioco del Barcellona, la maglia del Torino e la curva del Saint Pauli.
A proposito di cuori granata, è arrivato a Tito anche Paolo Verri, la cui anima è talmente grande da potersi permettere un doppio lavoro, essere contemporaneamente l’anima dell’Osvaldo Soriano e quella di Matera Capitale della Cultura 2019. Gli abbracci si moltiplicano, qualche lacrima scende. Poi la partita dei racconti inizia.
L’Italia mette in campo Francesco Trento e Giampaolo Simi, un bi-leone che non è potuto venire a Tito ma ha mandato un bellissimo racconto a rappresentarlo. Nella divisione dei compiti con cui noi Soriani ci siamo prodigati a dare una mano all’organizzazione dell’evento, a me è toccata la traduzione in inglese del testo di Simi. Visto che lui non c’è, mi tocca anche il privilegio di poterlo interpretare sul palco. Benchè sia stato spiegato che l’autore del racconto non sono io, appena finita la lettura vengo raggiunto da diverse persone che vogliono complimentarsi con me. Spiego alla prima che il racconto è di Simi. Riferirò, dico cordiale. Spiego alla seconda persona che non sono io l’autore. Si chiama Simi. Giampaolo Simi. Non sono io l’autore, dico anche alla terza. Ah, mi dice la signora restandoci male. Poi mi mette una mano sull’avambraccio e mi consola: «Ma hai una bellissima voce!». Sorrido, vado a prendere un caffè e vengo circondato da inglesi e tedeschi che pure si vogliono congratulare. Basta, non dico più niente e mi prendo i complimenti gongolando e offrendo caffè. «Beautiful story» mi dicono in tanti. «Thank you» rispondo io. Non è male essere Simi per un giorno.
La partita dei racconti si conclude. Dopo il consueto pasto da calciatori che l’organizzazione ci mette a disposizione, c’è spazio per un paio d’ore di riposo. Qualcuno torna in albergo, i più restano allo stadio. Noi Soriani ci raccogliamo alla spicciolata in una stanzetta nella quale un calciatore inglese riposa incurante delle nostre chiacchiere, a cui risponde con un gentil russare i cui tempi perfettamente si accordano alle nostre conversazioni.
«Quello sì che è stato un power nap!» commentiamo a bordocampo tra compagni di squadra un paio d’ore dopo, osservando il nostro amico inglese che realizza due gol, sigillando la vittoria della sua compagine sugli svedesi, nella finale per il terzo posto.
I tre fischi che risuonano nell’aria vogliono dire che ci siamo. Adesso tocca a noi. La finale contro la Germania. Scendiamo in campo nelle nostre bellissime divise azzurre. Salutiamo gli spalti e ci stringiamo a centrocampo assieme ai nostri avversari, mescolandoci in un solo cerchio. Posiamo per le foto, cantiamo l’inno e iniziamo a giocare, ché di questo alla fine si tratta.
Io devo stringere i denti. La schiena si è contratta di nuovo. Un polpaccio mi giura vendetta. Provo a concentrarmi sulla voce del campione di cui ha parlato Cassardo. Mi arriva il primo pallone, lo stoppo con calma, la gioco facile. «Bravissimo Francesco» mi dice la voce del campione. «Cazzo, funziona» rispondo io. Del mostro nessuna traccia. Secondo pallone, rinvio sbilenco: «Ottima, Francesco» mi dice la voce. «Vabbè» faccio io «non esageriamo, ho solo spazzato». Ma la voce del campione, implacabile, mi rassicura a ogni tocco, mi dice quando devo salire per restare allineato ai miei compagni di reparto, mi avvisa se il tedesco che devo marcare mi sta aggirando alle spalle, se posso giocarla con calma, se sganciarmi in avanti. Quando però canno completamente una marcatura e il mio avversario si invola verso la porta dove solo un grande intervento di Riba gli impedisce di arrivare, so di avere fatto una cappellata. «Grande Francesco!» mi dice ancora la voce e allora finalmente capisco. Mi volto verso la panchina dove Sollazzo, Verri, Bianco e Cassardo si sgolano per incitarmi come hanno fatto per tutto il tempo trascorso, perché se giochi nell’Osvaldo Soriano, non hai bisogno di voci interiori che ti motivino. Ci pensano già tutti i compagni di squadra.
Poi. Poi Brandimarte ci porta in vantaggio. Poi finisce il primo tempo e Trento ci ricorda il dovere all’onestà. Poi torniamo in campo. Poi la partita è nelle nostre mani. Poi il mio polpaccio, quello che pensavo fosse sano, finalmente dice che può bastare, schioccando con un piccolo colpo di frusta. Così chiedo il cambio e mi accomodo in panchina, dalla quale mi godo il secondo gol azzurro, realizzato da Matteo Amendola, al culmine di una manovra di squadra.
Non ce n’è per nessuno. Arriva il triplice fischio e siamo campioni. L’Osvaldo Soriano è una squadra di leoni: tri-leoni, bi-leoni o leoncini al primo ruggito come me.
Festeggiamo e ci dirigiamo verso il palchetto della premiazione. L’organizzazione rivela prima il vincitore della partita dei racconti, Giampaolo Simi. Ritira il premio Francesco Marocco. Tutti mi fanno i complimenti, io sollevo una mano per dire che non sono io, poi lascio stare. Whatever. In realtà vorrei dedicare i miei pensieri a Marco Mathieu, ma mi basta guardare Francesco Trento negli occhi per capire che non ce n’è bisogno. Così, al culmine della premiazione, quando prende la coppa per sollevarla al cielo, è lui a dire: «Vogliamo dedicare la vittoria a Marco Mathieu». Ci stringiamo felici e ruggenti.
Il difficile viene adesso. E non perchè dopo la doccia, tutti gli acciacchi inizino a manifestare la loro reale gravità, ma perchè è il momento di andare. E lo so, sto tornando a New York e non è esattamente il posto più brutto nel quale potessi finire a vivere. Però. È quella insopportabile tendenza dei tempi felici a passare troppo in fretta che mi disarma. Metto le divise fradice nel borsone. Indosso la giacca e il piumino. Sono pronto ad andare. Ho deciso di lasciare i completi, il mio numero 29, a Francesco, perché un nuovo Soriano possa usarli. Io chissà quando li indosserei di nuovo. Lui mi guarda e scuote il capo:
«Portali con te» mi dice
»L’anno prossimo li usi tu, al prossimo mondiale» mi strizza l’occhio. Ci abbracciamo.
«Promesso?» mi chiede.
«Promesso» rispondo e lui ci infila dentro il colpo da maestro: «E mi porti le bozze del romanzo nuovo! L’hai appena promesso!»
Io rido, saluto tutti in fretta perchè sto per piangere. Sulla porta che dagli spogliatoi conduce al campo saluto per ultimo Matteo Amendola che guarda la grande lastra verde del campo rapito nei suoi pensieri.
«Matteo» lo chiamo.
Si volta.
«Gran gol!» gli dico abbracciandolo. Lui mi ringrazia e mi sorride.
«Te ne vai?» mi chiede.
«Ho il volo domattina presto» rispondo io.
Lui annuisce, io pure. Non diciamo altro. Guardiamo entrambi dalla stessa parte. Il vuoto troppo spazioso delle cose che sono finite. Siamo soli. Siamo soli eppure apparteniamo entrambi a qualcosa di più grande delle nostre solitudini. Qualcosa che per due giorni è scesa a Tito. La magia del pallone.
Davanti al parcheggio ci sono due tedeschi che stanno facendo un carico di birre da portarsi sull’autobus che li porterà a Matera, per la serata di festeggiamenti che chiude la due giorni della Writers League. Mi vedono e subito aggiungono una birra al numero che hanno appena ordinato. Io declino l’offerta, dicendo che devo guidare.
«Come on!» mi dicono entrambi, mettendomi una Peroni appena stappata in mano.
«Congratulations. Good match» mi dice uno.
«Oh, and also congratulations: it was such a beautiful story!» aggiunge l’altro.
«It wasn’t me» inizio a dire, ma mi fermo. Rivolgo la mia birra alla loro.
«Cheers!»
«Salute!» mi rispondono.
Borsone in spalla mi avvicino all’auto, pronto a iniziare il viaggio per tornare a casa.
foto di Salvatore Laurenzana | Vertigo soc. coop.